
Rohingya. Deumanizzazione di un popolo dimenticato
Pensando al buddismo vengono in mente concetti come pace, rispetto, illuminazione, saggezza, calma ed equilibrio interiore. Il Myanmar è un paese a prevalenza buddista: quasi il 90% della popolazione lo pratica, è il paese con la percentuale di monaci maggiore rispetto alla sua popolazione e in cui si spendono più soldi per la religione.
Ma è proprio qui che si trova una delle etnie più perseguitate e dimenticate: i rohingya. Minoranza etnica di origine islamica che conta circa 800mila persone, costretta a vivere in una sorta di apartheid a ovest del Myanmar, all’interno dello stato birmano di Rakhine.
Secondo la legge sulla cittadinanza birmana i rohingya non fanno parte delle 135 etnie riconosciute dallo stato birmano e non hanno dunque diritto alla cittadinanza birmana, rimanendo di fatto apolidi. Non è consentito loro viaggiare senza un permesso ufficiale, possedere terreni, sono obbligati a non avere più di due figli ed è persino vietato pronunciare la parola Rohingya. Centinaia di migliaia di rohingya sono scappati in Bangladesh per fuggire da quelli che sono stati dichiarati crimini contro l’umanità.
Nel Rapporto Annuale di Amnesty International del 2018 si legge che:
l’esercito, spesso in collaborazione con la polizia di frontiera e vigilantes locali, ha ucciso un numero imprecisato di donne, uomini e bambini rohingya, torturato e altrimenti maltrattato donne e ragazze rohingya, anche commettendo stupri e altre forme di violenza sessuale, depositato mine antipersona e bruciato centinaia di villaggi rohingya, in quello che l’Alto commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite ha descritto come “un esempio da manuale di pulizia etnica”. Il comportamento delle forze di sicurezza si è configurato come crimine contro l’umanità.1
In tutto questo, il premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi, che ha trascorso molti anni agli arresti domiciliari per le sue lotte in favore dei diritti umani, ora consigliera di stato e capo di stato di fatto del Myanmar, non menziona né riconosce la gravità di questi crimini.
La storia della persecuzione dei rohingya non è recente: inizia nel 1825 con la colonizzazione dell’Impero Britannico e continua con la Seconda Guerra Mondiale perché, contrariamente alle altre minoranze birmane, erano sostenitori dei giapponesi. Da lì è un susseguirsi di pogrom fino al 2012 in cui un gruppo di monaci buddisti oltranzisti scatena violenze contro i musulmani rohingya perché considerati un pericolo per la religione e le tradizioni della maggioranza secondo un’interpretazione particolare del messaggio buddista. 200 morti e 100 mila sfollati bastano per placare gli animi fino al 2016 quando un attacco armato ai posti di blocco della polizia birmana provoca una reazione che sfocia in incendi, omicidi, stupri e 80mila rifugiati apolidi accampati oltre il fiume Naf che separa il Bangladesh dal Myanmar.
Ma cosa spinge un gruppo di persone a definirne l’identità di un altro e a dipingerlo nell’immaginario collettivo della maggioranza come un pericolo se non addirittura come qualcosa di non-umano? Il processo di attribuzione di un’identità è stato lungamente studiato dagli antropologi che si trovano piuttosto concordi nell’affermare che le identità come entità ontologico-politica sono in realtà inesistenti, non sono oggetti ma hanno una materialità che può avere effetti sul mondo a volte mortali, come in questo caso. Mi spiego meglio, l’identità non è un qualcosa dato per natura, ma è frutto di un processo: “l’identità è un fatto di decisioni” (Remotti, 1996: 5)2. L’identità è qualcosa che pur senza esistere diventa visibile e reale attraverso i sistemi amministrativi e strutturali di una società, definendo per intero la vita degli individui. Attraverso la discriminazione e l’esclusione si stabiliscono le condizioni dell’esistenza stessa dell’identità.
Nel caso dei rohingya siamo di fronte a quello che potrebbe essere definito come conflitto etnico in quanto uno dei tratti principali di questi conflitti è quello di definire i gruppi in conflitto sulla base di un’appartenenza a certi tratti razziali e culturali come ad esempio il sangue, la religione, la lingua, concepiti come patrimonio primordiale del gruppo. Un altro tratto peculiare di questi conflitti è da vedersi nelle cause del conflitto stesso che sono spesso da individuare in odii ancestrali che emergono ciclicamente in modo violento. Le appartenenze etniche producono conflitti solo quando sono spinte da leader politici e da campagne di propaganda che fanno leva e si fondano su sentimenti di paura e odio.
Queste forme di violenza strutturale sono contraddistinte da un forte legame con le istituzioni e le forme di potere che fanno di tutto per preservare i privilegi del gruppo dominante, e dalla tendenza a classificare in modo gerarchico gli individui e i gruppi, penalizzando quelli che sono considerati non del tutto umani e quindi mettendo in atto processi di deumanizzazione, come nel caso dei rohingya.
Un altro aspetto che molti osservatori hanno sottolineato riguarda la politica di espropriazione dei terreni di questa minoranza che dagli anni Novanta si è vista sottrarre oltre un milione e 200 mila ettari. Come spiega Ugo Fabietti3 le questioni di identità etnica si riconducono a conflitti di gruppi che spesso competono “per l’accesso a determinate risorse materiali e simboliche” (1995: 19). L’identità diventa così anche un potente mezzo nella lotta per le risorse.
La questione è ancora irrisolta e, nonostante la crescente apertura del Myanmar al turismo, la parte nord del paese rimane ancora inaccessibile.
NOTE
1 https://www.amnesty.it/rapporti-annuali/rapporto-annuale-2017-2018/asia-e-pacifico/myanmar/
2 Francesco Remotti, Contro l’identità, Editori Laterza, 1996
3 Ugo Fabietti, L’identità etnica. Storia e critica di un concetto equivoco, La Nuova Italia Scientifica, 1995
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